Marcel Proust – La precauzione inutile

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Scrittore francese. Esordì su alcune riviste legate al movimento simbolista. Nel 1896 uscì I piaceri e i giorni (Les plaisirs et le jours), raccolta di sofisticate prose d’occasione. Fra il 1896 e il 1904 lavorò a un romanzo che costituisce il primo abbozzo della sua opera maggiore e che fu pubblicato postumo con il titolo Jean Santeuil.

Nel 1906, in seguito alla morte del padre e della madre, si trasferì in un appartamento di Boulevard Haussmann, dove fece applicare alle pareti della sua stanza un rivestimento di sughero per proteggersi da ogni rumore. Lì, isolato dal mondo, scrisse Alla ricerca del tempo perduto (A la recherche du temps perdu, 1913-1927), monumentale ciclo di sette romanzi.

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Descrizione

Consegnato dallo stesso Proust nell’autunno del 1922 alle Oeuvres libres di Fayard e presentato dall’autore come “un romanzo inedito e completo“, “Precauzione inutile” è sì una versione abbreviata de La prigioniera (quinto volume della Recherche), ma è anche opera in sé compiuta e perfetta, tale da non dare niente affatto l’impressione di risultare mutilata o impoverita.

Se lo scopo dello scrittore, e soprattutto dell’editore, era infatti quello di pubblicare una parte della Recherche come intento promozionale per tutta l’opera, è però anche vero che tale riduzione consente all’autore di concentrare la storia narrata sul serrato confronto tra i due amanti, Marcel e Albertine, lasciando fuori quegli scorci di vita sociale – il lungo ricevimento dei Verdurin, il pomeriggio della duchessa di Guermantes – che ne La prigioniera servivano a bilanciare il “corpo a corpo” fra i due personaggi, così differenti per condizione e carattere.

Ne risulta non solo un bellissimo romanzo a sé, ma anche uno straordinario studio della gelosia, «una di quelle malattie intermittenti la cui causa è capricciosa, imperativa, sempre identica nello stesso malato, talvolta completamente diversa in un altro».

Dall’incipit del libro:

Di buon’ora, la testa ancora volta contro il muro e prima d’aver visto di sotto le tende l’intensità della striscia luminosa, sapevo che tempo faceva. Me l’avevano già detto i primi rumori della strada, giungendomi o ottusi e deviati dall’umidità o vibranti come freccie nell’aria suonante e vuota d’un mattino spazioso, glaciale e puro: il primo ruotare dei tramvai m’aveva già detto se il giorno fosse greve di pioggia o slanciato verso l’azzurro. E forse quegli stessi rumori erano già stati preceduti da qualche più rapida e penetrante emanazione che, insinuandosi nel mio sonno, vi aveva già effusa una tristezza annunciatrice della neve, o vi faceva intonare a qualche piccolo personaggio intermittente tanti piccoli cantici alla gloria del sole, che quelli finivano col creare una sveglia musicale in me ancora indormito e già sorridente e le pupille pronte ad essere abbagliate di luce. Del resto, in questo periodo, la vita esterna m’era tutta echeggiata principalmente dalla mia stanza. Mi consta che Bloch raccontò d’aver sentito, venendo a trovarmi la sera, come un chiacchierio: e poiché mia madre era a Combray e lui non trovava mai anima viva nella stanza, ne aveva concluso che parlassi solo. Quando, molto più tardi, seppe che Albertina abitava allora con me, e vide che l’avevo tenuta nascosta a tutti, disse che capiva finalmente il motivo per cui in quel periodo della mia vita non volevo più uscire di casa. S’ingannava: ma la cosa era scusabilissima, perché la realtà in se stessa, per quanto necessaria, non è mai completamente prevedibile. Chi apprende sulla vita d’un altro un particolare esatto ne trae subito conseguenze che non lo sono: e vede nel fatto ultimamente scoperto la spiegazione di cose che non sono affatto in relazione con esso.

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